IL CYBERBULLISMO riguarda tutti

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Di Cyberbullismo si riempiono le narrazioni giornalistiche e la cronaca il più delle volte drammatica. E’ un fenomeno complesso tanto più quanto la rete è entrata a far parte delle nostre quotidianità e di quelle dei nostri ragazzi. Nessuno escluso.

 

 

 

 

BeretiIl libro Cyberbullismo, scritto da Mauro Berti sovrintendente capo della Polizia di Stato e impiegato presso il Compartimento della Polizia Postale e da Serena Valorzi psicologa e psicoterapaeuta è un manuale di guida sicura per i ragazzi, i genitori, gli educatori.

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Che cosa dovrebbe sapere un genitore quando regala uno smartphone al figlio?

Non esiste un’età giusta per iniziare ad utilizzare uno strumento potente come, orami da tempo, sono risultati essere i moderni telefoni cellulari. Questi strumenti permettono di creare mondi che, solitamente, vengono frequentati dai giovani, soli, o comunque senza il necessario accompagnamento dell’adulto. Questo fa si che, in molte occasioni, i ragazzi confondano l’assenza degli educatori con il permesso di fare qualsiasi cosa, ritenendo, erroneamente, che tutto rimanga in quello che viene definito mondo virtuale. Iniziamo dalle definizioni e dalle differenze: bullismo e cyberbullismo.

Senza perdersi in tecnicismi potremmo dire si tratta di fenomeni similari che avvengono off line, e on line. Dobbiamo però sapere che ciò che avviene on line ha caratteristiche tali da avere effetti più profondi nella nostra vita.

Vi sono particolarità che rendono il Cyberbullismo più pericoloso del bullismo, tra queste troviamo: la memoria infinta della rete che rende perpetua un’offesa; la propagazione delle informazioni, che le rende accessibile a tutti; la solitudine del nativo digitale che affronta queste situazioni, che deriva soprattutto, ma non solo, dal fatto che queste tecnologie ci rapiscono e ci emarginano a stare soli dinnanzi ad uno schermo.

La dimensione pervasiva di Internet è davvero capace di modificare la percezione del tempo, dello spazio e delle emozioni? Ricordate il momento in cui abbiamo iniziato a scoprire internet?

La promessa era che avremmo recuperato moltissimo tempo: niente più code agli sportelli, ricerche a portata di click senza spostarsi in biblioteca, la spesa a domicilio, acquisti di prodotti provenienti dall’altra parte del pianeta senza doverci spostare, dialoghi immediati con persone lontane, navigatori, e poi, social network capaci di rimetterci in contatto con persone ormai perse nel tempo… Promesse che hanno trovato risposta nelle innumerevoli App, senz’altro.

Ma è proprio vero che abbiamo guadagnato tempo di vita e di relazione profonda?
Le notifiche, le email che ci raggiungono e interrompono in ogni luogo, di giorno come di notte, i messaggi con le spunte che spingono a rispondere subito, senza riflessione, il tutto e subito che atrofizza la capacità di pazientare e di memorizzare (tanto trovo tutto in internet), le distrazioni, le incursioni nelle vite meravigliose che gli altri postano e che fanno apparire la nostra vita così banale… Internet tende a fagocitare il nostro tempo di vita, e mentre ci affaccendiamo a farci un selfie, tutti sorridenti e abbracciati in compagnia, perdiamo spesso gli sguardi, così significativi, delle persone che ci circondano.

Continuamente connessi, la nostra attenzione è rapita dallo schermo, alla ricerca di relazioni con persone che non ci sono, disattenti rispetto a chi invece c’è. Il tempo si è affrettato, decolorato, e anche la percezione dello spazio ha subito mutamenti.

Il paradosso è che lo spazio di internet è infinito mentre noi siamo sempre più costretti a guardare in esso e a rimanere fermi nello spazio che sta tra noi e il nostro smartphone. Molti di noi riescono ancora a prendersi il tempo per contemplare il tramonto, a guadagnarsi lo spazio di una passeggiata tra gli alberi che germogliano, a perdersi nelle molteplici espressioni dello sguardo di una persona amata, certo, MA chi è nato in quest’epoca in cui tutti corriamo, spesso alla ricerca dell’esperienza da postare, rischia di rimanere confinato nella propria stanza, davanti ad uno specchio in cui vedi solo te stesso e non senti l’imbarazzo della nudità perché di fatto l’altro non c’è, o davanti ad uno schermo in cui vedi le vite degli altri e pensi che la loro sia meglio, o con le armi in mano, in un terreno di battaglia dove sfoghi tutta la rabbia e la tristezza delle quali non si sa dire neppure il nome.

Le emozioni hanno bisogno di tempo e spazio di condivisione per assumere significato, essere lette, accolte, contenute, e in questa nuova dimensione di spazio e di tempo, non sempre c’è posto per la comprensione e la calma, le interazioni significative e profonde di cui ogni essere umano ha bisogno.

E sul sistema delle relazioni come incide l’utilizzo di internet?
Credo che internet possa regalare molteplici possibilità di relazione che possono perfettamente affiancarsi alle relazioni viso a viso. Poter inviare un video delle onde del mare a chi non è potuto essere con noi, una foto divertente, un articolo interessante, un faccino con i cuori per dirti al volo che ti penso e ti voglio bene, sono fantastiche integrazioni possibili. Ma solo dal vivo possiamo assaporare pienamente la nostra capacità di entrare in sintonia con l’altro, sentire (attraverso l’attività dei nostri neuroni a specchio) ciò che prova e decidere come interagire gentilmente o in maniera decisa, se la situazione lo richiede.

Immaginate di interagire con qualcuno di cui non potete vedere le espressioni del viso, di cui non sentite le inflessioni del tono, di cui non vedete i gesti. La vostra comunicazione sarebbe castrata, egocentrata, attenta solo a ciò che pensate voi senza avere rimandi chiari. Potreste essere davvero curiosi di com’è la persona davanti a voi, interessati a conoscere i suoi pensieri, attenti a non ferirla? Ecco, è ciò che accade spesso quando siamo online.

L’impatto più vistoso della comunicazione in internet è che tende a sostituirsi a quella reale perché, apparentemente, è molto meno faticosa e rischiosa. Credo fermamente che per stare in internet senza farsi male ci debba essere oggi ancora più attenzione alle relazioni dal vivo, all’affetto manifesto, al coraggio di esprimere pensieri originali e non violenti, anche in op- posizione alla comunicazione aggressiva, critica, e non empatica che pervade la dimensione dello scritto solitario, spesso anonimo, senza freno in cui, invece del volto dell’altro, vedi riflesso solo il tuo. (SV)

Esistono social più sicuri di altri?
I social Media non sono insicuri, sono neutri è l’utilizzo che se ne fa, o che subiamo, che mettono a nudo le nostre debolezze. Sperare che delle Forze di Polizia Planetarie rendano sicura la rete è un’utopia, ecco quindi che se ne esce solamente con un aumento generale della cultura di Internet, che abbraccia anche la conoscenza di effetti collaterale che la tecnologia porta regolarmente nella nostra vita. Penso alla solitudine digitale, alla cattiveria della rete che, sembra, abbia la capacità far emergere il peggio che c’è in noi.

Penso all’invidia digitale, che possiamo provare quando visioniamo la vita patinata dei nostri amici, oppure alla possibilità di interpretare male i messaggi e i contenuti presenti sui profili delle persone che conosciamo. Vittima, Persecutore, Salvatore, nel libro si parla di triangolo drammatico, dal quale è necessario uscire se si vuole superare il problema.

In quest’epoca accelerata e spesso deprivata di contatto diretto che stimoli la capacità di riflessione e comprensione dei motivi dell’altro, siamo tutti spinti a funzionare per stereotipi. Siamo abituati al fatto che tutti dicano la loro, via via in modo sempre più forte, per distinguere la propria voce dall’altro, essere notati, ricevere più like o essere più seguiti. E poi, siamo stanchi. E quando noi esseri umani siamo stanchi, tendiamo a vedere il mondo in modo ipersemplificato. Come nelle favole; Cappuccetto Rosso è sempre tanto buona, il lupo sempre tanto cattivo…

Ma è davvero tutto così semplice?
Il triangolo drammatico di Karpman, che il libro propone in maniera innovativa quanto facilmente comprensibile, rappresenta una chiave interpretativa che permette di comprendere ed intervenire senza complicare le cose e senza aggiungere dramma al dramma.

Immaginate che Vostra figlia riceva dei messaggi spiacevoli sulla chat di classe. Probabilmente sareste molto in pena per lei che non ha fatto nulla per meritarsi di essere trattata così e molto arrabbiati e determinati a fare smettere tutto ciò. Mentre identifichereste chiaramente vostra figlia quale vittima di offese, e chi la offende online (o non le risponde mai) quali persecutori/carnefici, non vi accorgereste di aver assunto il ruolo di salvatore/giudice (il triangolo drammatico si compone di queste tre posizioni: Vittima-Persecutore-Salvatore).

In questa posizione cieca, potreste scrivere d’impulso sul gruppo genitori e accusare altri genitori di non aver visto, di non essere intervenuti e magari, qualcuno di loro, sentendosi fortemente, e magari ingiustamente, accusati potrebbero rispondere in modo altrettanto aggressivo (ma voi percepireste solo la loro aggressività, non la vostra, perché ciechi nella vostra posizione di salvatori). A questo punto potreste sentirvi loro vittima, o anche venire accusati da vostra figlia di aver scatenato un guerra e peggiorato la situazione (aggredendovi da persecutrice, pur sentendosi vittima). E così via per tutte le figure implicate (i papà, le mamme, i nonni, le zie, gli insegnanti, i dirigenti, i compagni…), in questo giro complesso che fa perdere lucidità, come se si stesse nella centrifuga.

Uscire dal triangolo drammatico significa riacquisire la capacità di riflessione, di mettersi nei panni altrui, di comprenderne le ragioni, di mediare, di chiedere scusa vicendevole, e soprattutto, significa non aggiungere danno a danno e, contemporaneamente, dare buon esempio a chi ha tanto bisogno di adulti solidi da adottare quali modelli.

Qual è il ruolo degli adulti?
Quando parliamo di adulti ci riferiamo sempre ad un ruolo ben preciso che incarnano gli adulti. Quello dell’educatore. Quindi, i docenti, i genitori e chiunque, anche occasionalmente, sia collegato, anche per un attimo, a questo genere di responsabilità ha il dovere di dare l’esempio, costantemente, con pazienza e senza mai abbassare la attenzione. Noi educatori dobbiamo osservare con attenzione i nostri ragazzi e cogliere anche i più piccoli segni di cambiamento o di disagio, tutto può essere un segno utili a tal fine.

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intervista a cura di Micol Andreasi, giornalista

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