La vita dei ragazzi in rete: pericoli e opportunità

Intervista a Federica Boniolo
a cura di Micol Andreasi

Federica Boniolo è psicologa, formatrice e specializzata in Cyberpsicologia. Presidente dell’associazione Unitinrete che si occupa dell’uso consapevole delle tecnologie, da anni studia il rapporto tra nuovi media e adolescenti.

Da più parti si erge l’allarme ed al contempo la richiesta di aiuto: i nostri ragazzi sono in difficoltà! La pandemia, la Dad, l’impossibilità a una vera relazione stanno progressivamente minando ogni loro sicurezza e si moltiplicano le manifestazioni di disagio. Cosa sta accadendo realmente?

“Di primo acchito mi viene da dire che sta accadendo ciò che era purtroppo inevitabile, visto il perdurare della situazione, che sta coinvolgendo un po’ tutti, non solo i ragazzi. Viviamo da quasi un anno in una condizione difficile, emergenziale, che ha stravolto le nostre vite e minato le nostre certezze. Le ripercussioni di una vita che, seppur necessariamente, possiamo definire in “cattività” prima o poi si sapeva che sarebbero emerse.

Vivere nell’incertezza, nella distanza, nell’impotenza e nella paura per la propria salute e per la propria situazione economica genera fatalmente conseguenze sul piano soprattutto morale e psicologico. La sensazione è che siamo un po’ tutti giustamente provati ormai. La situazione dei minori è ancora più complessa, perché per vari aspetti sono stati trascurati per molto tempo, sacrificati alla luce di altre priorità, messi in stand by.

Noi adulti abbiamo confidato nelle loro risorse, in quella loro apparente tendenza a non essere più di tanto intaccati da ciò che gli accade attorno. Molti, va detto, hanno comunque da subito sottovalutato e sminuito quello che poteva essere il livello di sofferenza dei ragazzi di fronte ad una situazione del genere.

Abbiamo dimenticato una cosa fondamentale: i ragazzi ci osservano, imparano da noi, si fanno un’idea delle cose a seconda di come le affrontiamo noi.

E quello a cui hanno assistito è stato un balletto convulso di confusione, incoerenze, dubbi, ansie, litigi, incapacità a gestire le cose che per loro si è tradotto nel dover rinunciare pian piano alla loro vita, alla scuola, allo sport, ai ritrovi con gli amici. A tutto quello che dà senso ad una certa età.
In generale, come adulti e figure di riferimento, si può dire che abbiamo fallito. E i ragazzi si sono trovati per la maggior parte a dover cercare di dare un senso a tutto da soli. Anche alle nostre incoerenze.
Il risultato ce l’hanno mostrato i media in questi giorni: allarmi lanciati da psicologi e neuropsichiatri, che denunciano l’aumento di situazioni di malesseri quali ansia, ritiro sociale, autolesionismo e tentativi di suicidio. Dati che invito a prendere con cautela e ad analizzare caso per caso prima di attribuirli in toto alla situazione da Covid19, ma che non si possono certamente ignorare.”

A voler leggere bene la realtà, non si può negare che in questo contesto di limitazioni e proibizioni, i social abbiano rappresentato e rappresentino per i ragazzi l’unico, ancora possibile, strumento concreto di socializzazione. E’ così?

“I dispositivi digitali e i social si sono rivelati per tutti degli strumenti indubbiamente utili per affrontare questi mesi continuando a mantenere il contatto con le altre persone. Immaginiamoci una pandemia vissuta in epoca analogica…sicuramente sarebbe stata ancora più pesante e tragica sotto molti punti di vista, da quello economico a quello relazionale.

I ragazzi, a differenza nostra, erano già prima abituati a socializzare e a mantenere i contatti fra loro tramite le tecnologie, quindi hanno sicuramente avuto meno difficoltà nel traslare la loro vita online. Questo non significa che sia stato comunque un passaggio indolore, specie per la durata e perché per molti di loro è realmente l’unico contatto che hanno con l’esterno e con le altre persone.

Pensiamo ai ragazzi che frequentano le scuole superiori in modalità dad, e che non hanno nessun’altra giustificazione per poter uscire. È ovvio che abbiano trovato nei social o nei videogiochi delle attività alternative per passare le giornate. Potremmo superficialmente dire che non sia stato un grande sacrificio per loro, visto che già prima della pandemia passavano ore su ore attaccati ai loro device. Ma non dobbiamo cadere in facili banalizzazioni.

Sono molti i ragazzi che si stanno stancando di passare le loro giornate così, e che sentono il bisogno impellente di tornare ad incontrarsi, a toccarsi, a guardarsi negli occhi. Io credo che tanti di loro d’ora in poi guarderanno alle tecnologie con occhi diversi.”

Qual è il confine tra opportunità e danno in riferimento all’uso dei Social?

“Il confine rischia di essere labile se l’uso dei social non è accompagnato da una corretta conoscenza delle regole e delle dinamiche del web. I social network devono essere visti per quello che sono: strumenti che decidiamo noi come usare e che permettono di vivere molte esperienze diverse. Aiutano a mantenere i contatti con gli amici e a conoscerne di nuovi, offrono spazi in cui i ragazzi possono sperimentarsi, costruire la propria identità, imparare a conoscere ed approfondire passioni e inclinazioni. Grazie ai social i ragazzi oggi hanno modo di interagire e di restare connessi con tutto il mondo, sapere quello che accade anche lontano da loro, farsi un’idea delle varie realtà e culture esistenti, sviluppare curiosità e senso critico.
Insomma, di opportunità ce ne sono svariate e il problema non è tanto la quantità di ore che i ragazzi passano davanti agli schermi, ma le attività che vi svolgono. Il punto è saper mostrare queste opportunità ai ragazzi, guidandoli verso un uso costruttivo delle tecnologie per dare valore aggiunto alle loro vite, mettendoli in guardia da quelli che sono gli aspetti invece pericolosi e che possiamo raggruppare in due categorie di rischio: incontrare persone malintenzionate e finire nei guai per le proprie azioni. È in questa direzione che deve puntare l’educazione digitale: accompagnare i ragazzi a scoprire l’uso sano, costruttivo, divertente ed utile delle tecnologie.”

Un like in più o in meno ad un post può davvero cambiare l’umore e la percezione  di sé in un ragazzo? Perché?

“Facciamo tutti un passo indietro con la memoria. A chi da adolescente non è mai accaduto di restare male e di mettersi in discussione per una parola ricevuta, un insulto, un’offesa o una battuta? Da che mondo è mondo, il giudizio altrui ha un peso, diverso ovviamente a seconda del carattere, della personalità e dell’autostima di ciascuno. In adolescenza, momento in cui l’individuo può sperimentare una sensazione di inquietudine, di fragilità e di bisogno di costruire la propria immagine di sé, i feedback ricevuti dall’esterno incidono moltissimo.

In un’epoca in cui le relazioni sono mediate dalle tecnologie e i social costituiscono luoghi in cui i ragazzi vivono e si sperimentano, è facile aspettarsi che la mancanza di quei rinforzi così cercati dai ragazzi (non tutti, va detto), come complimenti e like, generi delusione e porti ad un abbassamento dell’umore.

Quello che faceva restare male noi una volta, ossia il non essere apprezzati e accettati dagli altri, fa restare male anche i giovani di oggi, solo che in un’era digitale cambiano le forme, che noi adulti dobbiamo comprendere e non ridicolizzare. Compito nostro è far capire ai ragazzi quanto valgono, e quanto sia sbagliato e nocivo permettere al giudizio altrui di governare il nostro umore. Che sia un insulto o un like che non arriva.”

La Didattica a Distanza sdoganata nella primavera scorsa come la nuova frontiera della scuola, oggi è bocciata dalla stessa ministra che insiste sulla necessità di tornare ad una didattica in presenza. Qual è la buona eredità che ci lascia?

Non riesco a schierarmi apertamente né pro né contro la dad, perché a mio avviso la questione è molto complessa e non merita grossolane generalizzazioni. Quella che noi chiamiamo dad nella maggior parte dei casi è più una didattica che è stata adattata all’emergenza, non una vera e propria didattica digitale pensata e pianificata, ovviamente.

È stato fatto quello che si è potuto fare, partendo dagli strumenti e dalle competenze che avevamo a disposizione, e scaricando molto sulle spalle dei docenti, spesso non più giovanissimi e quindi non proprio a loro agio con le tecnologie. Quando hanno prevalso professionalità, passione, curiosità e capacità di adattarsi, si è assistito ad ottimi esempi di dad e anzi, si sono aperti nuovi scenari per quella che sarà la didattica post Covid19. Quando invece le scuole e i docenti si sono fermati, dandosi per sconfitti o non volendosi adattare al cambiamento, i guai sono stati inevitabili.

A rendere più pesante il tutto, ci ha pensato il digital divide, o divario digitale. Dare per scontato che tutti abbiano accesso ad almeno un dispositivo personale ed adeguato, e ad una connessione internet sufficiente, è stato un grosso errore. Chi ci ha rimesso, come sempre, sono state le categorie più fragili dal punto di vista socioeconomico, quelle da sempre più a rischio di dispersione scolastica e povertà educativa.

Pensando a come si è gestita l’emergenza durante il lockdown, credo che uno degli errori commessi sia stato focalizzarsi troppo sul programma e sulla didattica, trascurando l’aspetto emotivo e di relazione con i ragazzi. Andava dedicato più spazio a momenti di discussione con loro, parlando dei loro vissuti e aiutandoli ad affrontare la situazione. Lo stesso supporto psicologico alle scuole andava strutturato e garantito molto prima, ma come ho detto, si è pensato a quelle che sono state viste come priorità del momento, non ipotizzando purtroppo le conseguenze e gli scenari che ci avrebbero atteso nel futuro (e che ora sono esplosi).

La dad non potrà mai sostituire completamente la scuola in presenza, perché i fattori in ballo sono molti, primo fra tutti l’aspetto di socializzazione che è quello che manca moltissimo ai ragazzi e che deve far parte del loro percorso di crescita. Ma credo si debba far tesoro di quanto appreso in questi mesi, e non parlare di fallimento perché così facendo lanciamo ai ragazzi un messaggio pericoloso, di sconfitta e di inutilità dei loro sacrifici.

Per questo ritengo si debba ripartire da loro, dai loro pensieri, dai loro vissuti, raccogliendo suggerimenti e indicazioni per creare insieme una nuova didattica del futuro. In fin dei conti, sono loro ad aver vissuto la cosa sulla loro pelle, insieme agli insegnanti.”

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